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Vinyl, un indulgente Mad Men del rock

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Vinyl

di Enrico Giammarco

Alzi la mano chi non ha sognato, almeno una volta, di vivere negli anni Settanta. Non gli anni di piombo, ma i musicali seventies venati di rock, quelli da dove hanno preso il via tutti i generi, quelli delle grandi band e dei miti intramontabili che ancora oggi, Triste Mietitrice permettendo, si prodigano in tour mondiali, reunion e ristampe digitali dei loro capolavori.

La scena musicale di New York, i locali mitici, le etichette indipendenti. Chi ama la musica in una certa maniera (che non è quella delle playlist di Spotify) non può non rimpiangere un’epoca dov’era il contenuto a prevalere sulla piattaforma, dove la musica era figlia di un genuino processo di composizione e non di qualche algoritmo, dove ci s’inventava ancora qualcosa senza riciclare il riciclato, e dove gli artisti duravano più di una stagione. Quelle persone esistono, sappiatelo, non c’è soltanto il sottoscritto che a fine mese va a vedersi i Television in concerto (e sì, suoneranno ancora Marquee Moon, come quarant’anni fa).

È quello il tipo di pubblico a cui si rivolge Vinyl, il nuovo serial della HBO che da alcune settimane sta mandando in onda i dieci episodi della prima stagione. Chiamateli nostalgici, considerateli come degli eterni fascinati dal mito o persino dei passatisti ma non pensiate che si tratti (solo) di vecchi pensionati che rivivono con qualche lacrimuccia la loro gioventù. La nostalgia è uno dei primari fenomeni culturali di quest’epoca, si rivolge anche a un pubblico giovane, che negli anni Settanta non era neanche nato, e che.

Il plot principale di Vinyl ruota intorno all’American Century, una fittizia etichetta indipendente fondata da Richie Finestra (Bobby Cannavale) e dai suoi tre soci, che ha avuto momenti di gloria ma che non se la sta passando tanto bene, tanto da essere in trattativa per una salvifica cessione alla Polygram.

Gli indizi disseminati nel lungo episodio pilot e nelle puntate andate finora in onda ci fanno capire come il proposito della serie sia quello di raccontarci il rinnovamento musicale avvenuto all’interno del decennio, passando dal tramonto del progressive e degli stilemi più classici del rock fino ad arrivare alla nascita del punk, della new wave e, perché no, dell’hip-hop. Una specie di insight dell’industria discografica statunitense condito da subplot narrativi classici: intrighi, tradimenti, il dramma, il sangue.

L’approccio da retrospettiva storica si fa notare nelle innumerevoli citazioni sparse all’interno dello show. Dal crollo del Mercer Arts Center, che diventa momento centrale e svolta esistenziale del protagonista, passando per Alice Cooper e la sua scelta di abbandonare la band diventando solista, tutto è così verosimile da sembrare documentaristico. O meglio, tutto è quel che ci aspettiamo da un racconto dell’epoca, eccessi e follie inclusi. Nel passaggio tra mitizzazione e cliché si nota quel che manca a Vinyl: un po’ di sana autocritica.

Il limite di questo show sembra risalire proprio alla formazione del team di autori e produttori. Abbiamo Mick Jagger, ovvero la più grande icona vivente del rock mondiale, uno che ha tutto l’interesse nel creare un prodotto celebrativo dell’epopea musicale, magari inserendo anche il figlio nel cast (è il cantante dei Nasty Bits, la band proto-punk che attira l’attenzione di Richie). Poi abbiamo Martin Scorsese, che ha anche diretto (alla grande) il pilot, infarcendolo però di tutti i luoghi comuni del cinema scorsesiano: italo-americani ovunque, mafia, cocaina e, perché no, pure un omicidio. Infine, abbiamo Terence Winter, colui che ha dato inizio all’epoca d’oro delle serie TV creando I Soprano.

La presenza di Winter mi offre lo spunto per notare come Vinyl rientri appieno nel solco di tutti quegli show che hanno un protagonista bianco di mezza età con tanti scheletri nell’armadio e sull’eterno punto di sprofondare. Oltre a I Soprano, pensate a Breaking Bad, House of Cards e Mad Men. Ormai sembra proprio impossibile realizzare una serie TV di successo senza avere un anti-eroe al posto di comando, qualcuno che ti convinca a empatizzare con lui pur compiendo azioni spregevoli.

Le analogie tra Vinyl e Mad Men, poi, sono tante, e saltano tutte agli occhi. Oltre al protagonista, troviamo la moglie Devon (una splendida Olivia Wilde in versione hippie) che mostra da subito le crepe famigliari che hanno compromesso l’unione tra Don e Betty Draper, la giovane Jamie Vine, una segretaria che smania per diventare agente (qualcuno ha detto Peggy Olson?), oppure Zak Yankovich (un Ray Romano con una pettinatura che lo fa assomigliare a Ricky Memphis), il socio di Richie asservito dai capricci di moglie e figlia (qualcuno ha detto Roger Sterling?).

Oltre che ai personaggi, i richiami a Mad Men risiedono nella scrittura e in quel modo di raccontare un mondo (la pubblicità o l’industria discografica, nel caso) con l’occhio attento al particolare e uno stile fotografico seducente. Il problema è che Vinyl, almeno finora, sembra mancare di quel tono critico dell’epoca e di certi costumi (il maschilismo su tutti) che in Mad Men era presente, tra le righe e non. Sembra esserne una versione compiaciuta di chi ti vorrebbe dire “Sì, erano dei pazzi scriteriati, però era figo!”. È  la stessa ottica di chi guarda in maniera nostalgica e consolatoria al passato sfogliando un libro di foto-ricordo, filtrato dai momenti difficili e dagli errori, pieno invece di avvenimenti e ricorrenze felici.

Per questo motivo, se si va oltre alla colonna sonora (ovviamente stellare), alle “ospitate” da fan-service (attori che interpretano, in maniera più o meno riuscita, Led Zeppelin, Andy Warhol o Alice Cooper), se si da quasi per scontato l’alto livello di recitazione, regia e fotografia, si rischia di rimanere delusi da Vinyl. Ma abbiamo ancora metà stagione per ricrederci.

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